Chiacchiere coniugali

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Chiacchiere coniugali
“…vuol dire che non te ne frega un cazzo, di me”, conclude la frase lei: la mormora, mettendoci giusto un po’ di asprezza sulle due zeta di cazzo. Fa un tiro nervoso di sigaretta, mi sputa il fumo in faccia senza guardarmi, l’unghia laccata dell’indice della mano destra che va a cercare degli invisibili granelli di polvere sul tavolo in vetro. Tra gli occhi, alla radice del naso, è comparsa una ruga che raramente fa capolino: posso rimirarla soltanto quando lei è davvero molto, molto incazzata, gente. In genere, quando quella ruga compare, reagisco chiudendomi nell’armadio, tremante di terrore.
Nah, esagero. Però quella ruga non è mai un buon segno, ve lo assicuro.
Comunque decido di ribattere: non sono stato io, a cominciare questa conversazione. Posso mentire a chiunque, sugli argomenti più svariati, ma io a mia moglie non mento. Mai. Se mi fa una domanda, io le rispondo, e le rispondo con la massima sincerità. Io, alla donna che ha deciso – volontariamente! – di vivere con me accanto non mento: non se lo merita.
Il rispetto, maledizione. Il rispetto prima di tutto.

Tiro un sospiro, e ribatto.

“No, Cla. Vuol dire che m’importa così tanto, di te, da tenere sempre presente che sei una persona, e che non sei roba mia”.
“Un bel modo per dire che tu sei roba tua, non mia, e che tu le altre te le scoperesti. E che non te ne fregherebbe un cazzo, se io mi scopassi degli altri, perché per te la cosa più importante è scoparti altre”.
“Certo: io sono roba mia, anche se vivo con te. E certo: mi scoperei un sacco di altre donne. Ma proprio un sacco. E’ da quando ho compiuto tredici anni che vorrei scoparmi un sacco di donne. Ma no, scoparmi altre non è affatto la cosa più importante, per quanto l’idea stuzzichi”.
“Lasciami e scopatele, allora. Nessuno ti trattiene”.
“Tu, mi trattieni. Ma perché lo voglio io, mica perché lo vuoi tu”.
“Stronzo”.
“Possessiva del cazzo”.
“Non ti faccio scopare per mesi, non ti faccio. Stronzo”.

Cinque minuti dopo, dopo essersi infilata da sola il mio cazzo nel culo, mi cavalcava al piccolo trotto, ansimando, le gote arrossate, le vene sul collo in risalto. La mano destra frugava nel nido irsuto in mezzo alle sue gambe, strofinandosi la clitoride tumida. Di tanto in tanto lanciava un gemito, spingendosi dentro il mio cazzo sino a fine corsa, la schiena inarcata, la figa spalancata rivolta al mio viso: muoveva le dita in circolo sul bottoncino roseo affiorante dai peli neri, e mi schizzava con un rumore acquoso dell’urina sulla pancia, sul petto e sul viso: io raccoglievo con le dita quelle gocce calde e profumate, portandomele alla bocca, godendo del suo sapore segreto.

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La notizia riguarda una coppia di cinquantenni che in un club (uno di quelli in cui si entra tipo con un plug già nel culo, per intenderci) si è inaspettatamente trovata davanti alla figliola, che era lì a giocare lo stesso gioco che erano andati lì a giocare i suoi genitori: ammucchiata selvaggia con degli sconosciuti, signori. Ne è nato un alterco, che è sfociato in una sorta di tragedia familiare: la figlia ha rotto i rapporti con i genitori, non li vuole più né vedere né sentire, la mamma è disperata perché ha rovinato – teme per sempre, chissà in che posizione li ha trovati – il rapporto con la figlia, eccetera eccetera. Io ridacchio mentre leggo ad alta voce, mia moglie scuote la testa.

“Che schifo, però, dai”.
“Perché che schifo? Mica si sono scopati tra di loro. Genitori e figlia, intendo”.
“E ci sarebbe pure mancato quello”, dice lei, in faccia un’espressione genuinamente disgustata, spero più per l’idea dell’i****to che per il fatto che io ci abbia pensato, all’i****to.
“Cla, è stato un incidente. Si sono incontrati in un posto in cui sarebbe stato meglio non incontrarsi, ok; lo capisco, che sarebbe stato meglio per tutti e tre se si fossero incontrati in un supermercato invece che nella stanza del linguainculo, ma io l’avrei chiusa lì. Lei ha la sua vita sessuale, i suoi genitori hanno la loro. Mica c’è da farci su una tragedia”.
Lei mi guarda, ed è uno sguardo durissimo: “Perché, secondo te è normale vedere i tuoi che partecipano ad una ammucchiata? Li vedi lì che si ingroppano e fai finta di niente? Ciao mammina, ciao papi, ci vediamo a casa, mi raccomando: lavatevi i denti e le mani. Dai”.
Mi sono stretto nelle spalle, volgendo i palmi delle mani al soffitto: “Se sei una che va a fare le ammucchiate – e che considera normale fare le ammucchiate – devi anche considerare normale che i tuoi genitori possano considerare piacevole fare le ammucchiate. Le stesse regole per tutti, no? Piace a te, piace a loro, nessuno si fa male. Basta cambiare stanza. E non entrare in quella buia, così non rischi di succhiare il cazzo a papà e leccare la figa a mamma”.
“Non riesci ad esprimere gli stessi concetti senza fare schifo?”
“Scusa, mi mondo dalle volgarità e riformulo: e non entrare in quella buia, così non rischi di finire col praticare una fellatio al tuo genitore e di fare cunnilingus alla tua genitrice. Meglio?”
“Fai schifo lo stesso”.
“Grazie”.
“Prego”.

Qualche secondo di silenzio. Io faccio partire mentalmente la musichetta del film “Lo Squalo”. Il tempo di un paio di battute, poi lei attacca.

“Mi fa schifo il fatto che non ti faccia schifo che marito e moglie vadano a fare le ammucchiate”, dice, puntandomi quei fanali azzurri che ha per occhi addosso. Gelida. La sua mano s**tta a prendere il pacchetto di sigarette con su il cammello, e tira fuori una sigaretta in una frazione di secondo, una sorta di gioco di prestigio: a me sembra che mia moglie non lo abbia nemmeno guardato, quel pacchetto. Ha una visione periferica che inquieta. E ha una velocità nei movimenti che inquieta ancora di più. Non quanto il suo sguardo che ti fissa negli occhi, incenerendoteli, ma quasi, insomma. Amo questa donna. Davvero.
“La ragazza che va a fare le ammucchiate, invece?”
“Mi fa schifo anche lei, checcazzo. Ma di meno. Almeno non è sposata”.
“L’articolo non dice se è sposata o meno”.
“Quindi a te non fa schifo”.
“No”.
Si mette la sigaretta in bocca. Afferra l’accendino con la rapidità di un rapace che afferra un topo. “E sentiamo, c’è qualcosa che ti fa schifo?”

Giocatela bene, mi dico. Che se fai un passo falso questa t’incula. Per mesi, t’incula.

“Mi fa schifo un marito geloso, possessivo, che segrega la moglie in casa, ma che va a puttane e paga di più per farlo senza preservativo”, ribatto prendendo anche io una sigaretta. Sono le sue, sta cercando di smettere e le tiene contate, quindi lei mi guarda peggio, per qualche istante. Poi accende la sigaretta, spostandomi i fanali di dosso. Mi passa l’accendino con un gesto secco. Accendo anche io.
Espiro il fumo, soffiandolo verso l’alto. “Mi fa schifo una moglie che si scopa a raffica i colleghi in ufficio. Anche un marito che si scopa a raffica le colleghe, giuro”, dico, e lo sguardo di lei si ammorbidisce un pelo, passando dal diamante all’ossidiana.
“Non mi fa schifo una coppia che decide di comune accordo di volersi scopare altra gente”.
La durezza dello sguardo di lei scivola verso l’alto, andando sul topazio, per poi tornare rapidamente al diamante.
“Perché, tu mi faresti scopare da altra gente?”
“Ho detto di comune accordo, Cla. Quel ‘mi faresti scopare da altra gente’ me lo fa sembrare un’imposizione”.
“Ok”, ha detto lei. “Io potrei scoparmi altra gente gente e a te non te ne fregherebbe un cazzo?”
Ho fatto segno di no con la testa. “Fare le ammucchiate è diverso da scoparsi altra gente. Scoparsi altra gente è scoparsi i colleghi in ufficio. Fare le ammucchiate è partecipare ad un gioco condiviso”.
“Sempre scopare è, che vuol dire”.
“Sì, sempre scopare è, con la differenza che se ti scopi i colleghi stai facendo un tradimento, perché lo fai di nascosto da tuo marito; se fai le ammucchiate INSIEME a tuo marito, invece, non stai tradendo nessuno”.
“Già. Stai solo scopando con una persona che non è tuo marito”, fa lei, sarcastica.
“Giusto”, dico io. “Però quella persona te la stai scopando mentre tuo marito guarda e si fa una sega”.
Lei scuote la testa. “Io non riuscirei più a toccarti, sapendo che ti sei scopato un’altra. Mi farebbe schifo”.
“Cla, quando mi hai conosciuto avevo trent’anni. Me ne ero già scopate parecchie, di altre. E – non che voglia saperne i particolari, davvero, nel caso grazie ma passo – anche tu te ne sei scopati parecchi, di altri”.
“Ma che cazzo vuol dire, non ci conoscevamo. E non sapevo che ti avrei incontrato. Se ti avessi conosciuto a sedici anni sarei stata solo con te sin da allora”.
“Falsa”.
“Lo penso davvero”.
“La cosa mi intenerirebbe. Se fosse vera”.
“Stronzo”.
“Falsa”.

Sbuffi di fumo. Claudia spegne la sigaretta nel posacenere: l’ha divorata, io sono a metà.

“Quindi se io andassi con te in un club a scoparmi altra gente a te non interesserebbe”, dice lei.
“Non ho detto questo”.
“Son dieci anni che ti conosco, bello. Ho imparato a leggere tra le righe”.
“Leggi meglio, allora, perché hai saltato qualche frase”.
“Tipo?”
“Tipo che il gioco lo si fa in due. Mettiamo che a me vada di stare a guardare mentre tu ti arrotoli nel mezzo di una massa indistinta di cazzi; mettiamo che a te vada di arrotolarti in mezzo a quei cazzi mentre io sto a guardare: la cosa farebbe felice me, perché mi piace guardare mia moglie che fa sesso con degli sconosciuti; la cosa farebbe felice te, perché a te piace fare sesso con degli sconosciuti mentre tuo marito sta a guardare”.
“Sì, ma…”
“Fammi finire, moglie”.
“Mi chiamo Claudia”.
“Taci, donna”.
“Ti strappo le palle”.
“Stai bluffando”, dico scrollando le spalle. Lei mi mostra il dito medio. Io riscrollo le spalle. “Se invece tu mi obbligassi ad assistere allo spettacolo – o peggio, partecipassi allo spettacolo senza dirmi nulla – allora sì, mi incazzerei come una bestia. Perché a me fa incazzare il tradimento. L’inganno. La menzogna. Il corpo è tuo, non appartiene a me. Ci fai quello che vuoi, con il tuo corpo. Io sono tuo marito. Condivido la mia vita con te, non controllo mica la tua”.
“Rimane il fatto che mi faresti scopare da un altro e non te ne fregerebbe nulla”.
“Ancora. Tu, ti scoperesti un altro, non ti ci farei scopare io”.
“Minchia quanto odio i maschi femministi”.
“Rispetto il diritto al libero arbitrio delle persone, non sono femminista: non mi piacciono le lesbiche”.
“I tuoi pregiudizi sono vergognosi”.
“Scherzo, lo sai. Adoro le lesbiche”.

Silenzio.

“Non te ne fregherebbe niente perché non ci tieni più, a me”.

Ahia.

La mano s**tta verso il pacchetto di sigarette. Tituba. Poi ne estrae una, nel solito microsecondo.

“L’hai appena spenta, Cla”.
“Non cambiare discorso”.

Silenzio.

Accende la sigaretta. Io spengo la mia, che è arrivata a scaldarmi le dita, bruciando sino al filtro.

“Perché il gioco non è di una che scopa e di uno che sta a guardare: il gioco è di due che scopano, di solito. Che scopano altri. Danno dentro la carcassa del coniuge, che non desiderano più; portano in pegno il corpo di quella o quello che hanno sposato, del quale non gli importa più, e si prendono in cambio il corpo di un altro, il corpo di un’altra, il corpo di altri. Di altri”.

Fanali duro diamante scintillano.

“Perché la noia e la monotonia hanno reso il corpo di quegli sconosciuti più desiderabile di quel corpo che hanno lasciato al banco dei pegni”. Dice. “Di quel corpo che non amano più, ma che a fine ammucchiata si riporteranno a casa. Nella placida, monotona noia della vita coniugale”.

Vi ho già detto che amo questa donna?

“Se ti va bene che io mi scopi degli altri; se vuoi scoparti altre; se ritieni che sbarazzarti temporaneamente del mio corpo sia un prezzo ragionevole da pagare per poterti scopare delle altre donne; se non ti da’ fastidio l’idea della sborra altrui nella mia bocca, della lingua di altri sulla mia figa, del cazzo di altri nel mio culo; se non ti fa male l’idea di me che godo mentre un altro uomo mi cavalca, mi incula mentre un altro mi lecca la figa, mi sborra in faccia mentre altri cinque aspettano il loro turno, rispettato coniuge, vuol dire che non te ne frega un cazzo, di me”.

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